Mentre nel cielo del melodramma italiano è sfolgorante il sole rossiniano, fa la sua apparizione una luminosa meteora, quella di Vincenzo Bellini (1801-1835).
Dodicesima puntata.
In un momento in cui lo stile rossiniano sembrava aver contagiato chiunque si accostasse all’opera, Vincenzo Bellini (definito dai posteri “Il Cigno Catanese”) con il suo puro lirismo, sfugge da ogni contaminazione. Nella sua musica trionfa quella melodia semplice, lineare, che l’etereo accompagnamento dell’orchestra rende quasi fragile, talvolta trasparente. Il percorso di Vincenzo Bellini è nel segno del raggiungimento di quella inimitabile purezza che nella celebre “Casta diva” della “Norma“, e nell’ “Ah, non credea mirarti” de “La sonnambula“, entrambe del 1831, tocca i suoi momenti insuperabili. L’evoluzione del linguaggio belliniano ha delle tappe fondamentali: nel 1827, con la prima rappresentazione de “Il pirata“, il pubblico della Scala rimase estasiato dalla bellezza e dalla potenza drammatica della musica, in particolare nella scena finale dell’opera. A questo successo avevano contribuito, oltre al prestigio degli interpreti, con il soprano Henriette Meric-Lalande ed il tenore Giovanni Battista Rubini.
L’incontro di Vincenzo Bellini con il librettista Felice Romani è l’avvio di una fruttuosa collaborazione che porterà alla creazione de “La straniera” (1829), “Zaira” (1829) e “I Capuleti e i Montecchi” (1830), opere che, pur non raggiungendo il successo de “Il pirata”, contengono pagine di grandissima ispirazione. Questo sodalizio si interruppe bruscamente nel 1833, dopo l’insuccesso della “Beatrice di Tenda“. Il 1831 fu l’anno d’oro di Bellini: nel marzo di quell’anno andò in scena “La sonnambula”, seguita in dicembre dalla “Norma”. Entrambe videro la luce a Milano, con la presenza dei massimi interpreti del tempo. Bellini e Romani raggiungono in queste due opere il loro culmine espressivo, l’equilibrio perfetto: nelle partiture non vi è in effetti né una nota in più, né una in meno. Complice di questo successo è anche la presenza di Giuditta Pasta, cantante-attrice all’apice della sua carriera, per la quale Bellini tratteggia Amina e soprattutto Norma, due delle più belle figure della storia del melodramma di tutti i tempi.
I personaggi femminili avevano da sempre ravvivato in particolar modo l’ispirazione di Vincenzo Bellini. È a loro che quasi sempre affida le sue melodie più toccanti, ed in loro raggiunge una delle punte più alte del nostro romanticismo. Imogene, Zaira, Giulietta, e ora Amina e Norma, successivamente Beatrice ed Elvira, (la protagonista dell’ultima opera del musicista catanese, i “Puritani” del 1835), sono figure dolenti, vittime dei loro sentimenti, ma, come Norma, nobili e fiere. Imogene, Amina ed Elvira, con la loro fragilità psicologica, sono vittime delle situazioni drammatiche che vivono. La loro sola possibilità di fuga è la follia, o una sorta di delirio amoroso, grazie al quale sfuggono dalla realtà che le opprime. Queste scene di follia saranno un punto fondamentale del melodramma ed avranno altri numerosi esempi, il più celebre dei quali è senza dubbio la grande scena della pazzia della “Lucia di Lammermoor” di Donizetti. Ma Bellini sa raggiungere vette di grande potenza drammatica, come dimostra il finale della “Norma”, che ebbe anche la clamorosa ammirazione di Richard Wagner.
Leggi anche: